La vicenda:
Una società del settore metalmeccanico comunicava ad un operaio (dirigente sindacale di una organizzazione sindacale) una serie di contestazioni disciplinari sia per lavoro mal eseguito che per insubordinazione ed offesa nei confronti di un diretto superiore.
La società per recidiva licenziava il dipendente.
Il lavoratore impugnava individualmente il licenziamento mentre il sindacato di appartenenza lo impugnava ex articolo 28 legge 300/1970.
Il giudizio individuale si concludeva con una ordinanza ove il licenziamento veniva ritenuto illegittimo, ma con applicazione della tutela obbligatoria rafforzata di cui all’articolo 18, 5° comma legge 300/1970 e non veniva impugnata da nessuna delle parti.
Nel procedimento ex articolo 28, invece, il giudice della fase sommaria accoglieva il ricorso disponendo la reintegrazione del lavoratore, mentre il giudice della fase a cognizione piena ribaltando il decreto ex articolo 28, riteneva il licenziamento legittimo anche e soprattutto per assenza del requisito della antisindacalità.
La decisione:
La Corte d’Appello di Roma, nel confermare seppur con diversa motivazione la sentenza di primo grado, affermava due principi fondamentali nell’ambito delle relazioni sindacale e soprattutto delle prerogative e dei diritti del dirigente sindacale.
In merito al primo aspetto, la Corte d’Appello inserendosi nell’ambito della discussione dottrinaria e giurisprudenza relativa alla necessaria sussistenza di uno stato soggettivo rilevante per configurare l’anti-sindacalità del comportamento datoriale, afferma che sicuramente non è necessaria la prova dello stato soggettivo del datore di lavoro (seguendo quindi la cosiddetta teoria oggettiva secondo la quale per la configurabilità della fattispecie vietata dall’art. 28 St. Lav. non è necessario l’accertamento di uno specifico intento lesivo da parte del datore di lavoro, ma è sufficiente che il comportamento denunciato leda oggettivamente in maniera illegittima gli interessi collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni sindacali),
…tuttavia occorre comunque che la condotta abbia in concreto limitato la libertà sindacale o il diritto di sciopero e quindi non ha carattere antisindacale quella condotta che risulti dovuta all’esercizio di un diritto del datore di lavoro, alla quale non si contrapponga un opposto dei lavoratori che sia valido a contrastare il primo, o all’ adempimento di un dovere , imposto allo stesso datore di lavoro da una disposizione di legge dettata a tutela di diritti pari o di superiore dignità. Diversamente opinando si perverrebbe a risultati palesemente aberranti quali quelli di considerare che un dirigente sindacale non possa essere licenziato pur sussistendo la giusta causa o il giustificato motivo oggettivo o soggettivo di recesso …. Ritiene questa Corte, in conformità ai principi espressi dalla suprema corte, che certamente nella fattispecie non rilevi lo stato soggettivo del datore di lavoro affinché possa dirsi integrata una fattispecie di condotta antisindacale, ma che tuttavia questo principio debba essere contemperato con la valutazione della fattispecie concreta. In buona sostanza, nel caso della licenziamento di un dirigente sindacale, non basta dire che il provvedimento espulsivo è antisindacale perché ha colpito un dirigente del sindacato, ma occorre che sia verificata da parte del giudice la reale sussistenza della situazione di fatto che è stata posta base, ossia la sussistenza di una giusta causa, di un giustificato motivo oggettivo o soggettivo.
Il secondo aspetto riguarda il perimetro entro il quale può essere esercitato il diritto di critica sindacale ad un comportamento datoriale.
Nel caso deciso dalla corte d’appello di Roma il lavoratore sindacalista si era rivolto a un suo diretto superiore in malo modo, in più di una occasione infatti aveva rivolto alla suo diretto superiore l’epiteto “vaff….”.
L’uso di tale terminologia era stato considerato dal giudice della fase sommaria del procedimento di cui all’articolo 28 della legge 300 del 1970, come legittima esternazione dei video di critica ad una reazione scomposta e ingiustificata.
Diversamente, sia il giudice della fase a cognizione piena che la corte d’appello di Roma hanno ritenuto che:
…la critica nei confronti dell’azienda ovvero del proprio superiore può essere anche forte, marcata, ma non deve comunque travalicare i confini fissati dalle regole del vivere civile e del codice penale. Pertanto, se da una parte è accettabile una critica anche forte, dall’altra il turpiloquio, l’insulto gratuito e la mancanza di buona educazione e di rispetto, la lesione dell’altrui decoro ed onore sono inaccettabili, da chiunque provengano ed anche se è frutto di provocazione.
In allegato: Sentenza Corte d’Appello