Con la sentenza 1412/2020 della Corte d’Appello di Roma resa in sede di rinvio dalla Corte di Cassazione è stato ribadito il principio che i comportamenti posti in essere dal lavoratore al di fuori dell’ambito lavorativo sebbene normalmente ininfluenti sul vincolo fiduciario, in determinati contesti possono giustificare il licenziamento.
Il caso:
Un dipendente di una azienda industriale veniva arrestato e poi sottoposto alla misura cautelare dell’obbligo di dimora per aver fatto parte di una organizzazione criminale dedita allo spaccio di sostanze stupefacenti; nel particolare il dipendente rivestiva il ruolo di “corriere”, nel senso che era colui che trasportava la sostanza stupefacente dal fornitore allo spacciatore.
Nei primi due gradi di giudizio, il Tribunale e la Corte d’Appello ritenevano il licenziamento ingiustificato poiché non era stata fornita la prova da parte del datore di lavoro, che la condotta extralavorativa avesse inciso sul rapporto fiduciario posto a base del rapporto di lavoro.
La Corte di Cassazione su ricorso della società datrice di lavoro, riteneva, però, che non fosse stata adeguatamente valutata da parte del Giudice d’Appello, l’effettiva compromissione del vincolo fiduciario e quindi rimetteva nuovamente alla corte d’Appello, in diversa composizione, la valutazione del caso.
La Corte d’Appello, acquisiti gli atti del procedimento penale in cui era stato coinvolto il lavoratore e valutata attentamente la posizione di questi nel contesto criminoso, giungeva a conclusioni diverse rispetto a quelle poste a base delle decisioni dei giudici di merito nei gradi precedenti e, da un lato, stabiliva che:
“… in caso di licenziamento disciplinare per fatti estranei al rapporto lavorativo aventi rilevanza penale, il datore di lavoro può esercitare il diritto di recesso senza necessità di attendere la sentenza definitiva di condanna, posto che il principio di non colpevolezza fino alla condanna definitiva, di cui all’articolo 27 comma 2 della Costituzione, concerne le garanzie relative all’attuazione della pretesa punitiva dello Stato e non può quindi applicarsi in via analogica o estensiva, all’esercizio da parte del datore di lavoro della facoltà di recesso per giusta causa in ordine ad un comportamento del lavoratore suscettibile di integrare gli estremi del reato”, e, dall’altro, stabiliva che:” ….
In ordine alla sussistenza della giusta causa di licenziamento, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che l’addebito di detenzione e spaccio, con cadenza regolare di elevata quantità di sostanze stupefacenti costituisce, almeno in via astratta, giusta causa di licenziamento, in quanto si tratta di condotta che, oltre ad avere rilievo penale, è contraria alle norme dell’etica e del vivere civile comune ed ha un riflesso anche solo potenziale, ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto di lavoro”.