Vicenda processuale:
Una società venuta a conoscenza dell’uso improprio dei permessi sindacali da parte di un lavoratore sindacalista, componente del comitato direttivo provinciale, incaricava una agenzia di investigazioni affinché verificasse se durante i giorni di assenza dal lavoro per permesso sindacale il sindacalista effettivamente svolgesse detta attività.
Dalla attività investigativa emergeva che il sindacalista in quattro giorni, aveva svolto attività assolutamente incompatibili con i permessi richiesti e concessi.
La società quindi inoltrava al lavoratore una contestazione disciplinare con sospensione cautelare, alla quale il sindacalista replicava con giustificazioni che non venivano accolte dalla società che quindi licenziava disciplinarmente il lavoratore.
Il sindacalista impugnava il licenziamento avanti al giudice del lavoro di Treviso che sia nella fase sommaria (ove il sindacalista aveva affermato che i permessi richiesto erano ai sensi dell’articolo 30 della Legge 300/1970) che in quella a cognizione piena (ove diversamente il lavoratore affermava che i permessi erano ai sensi dell’articolo 23 dello statuto dei lavoratori) rigettava la domanda.
Il sindacalista reclamava la sentenza avanti alla Corte d’Appello di Venezia, che con la sentenza cassata dalla Cassazione affermava nella sostanza che i permessi dovevano ritenersi ai sensi dell’articolo 23 della legge 300/1970 e che, comunque, una eventuale violazione degli stessi avrebbe al massimo avuto effetti di natura retributiva, ma non certo di natura disciplinare.
La Corte di Cassazione cassando la sentenza della Corte d’Appello di Venezia accoglieva il ricorso della società, rimettendo alla stessa Corte d’Appello, in diversa composizione, la decisione nel merito della controversia.
La sentenza della Corte di Cassazione numero 4943 del 2019, si pone all’ attenzione dell’interprete come una delle più importanti sentenze in materia di diritto sindacale ed in particolare del diritto del sindacalista all’ utilizzo dei permessi previsti e disciplinati dagli articoli 23 e 30 dello statuto dei lavoratori.
Come è noto le norme citate prevedono rispettivamente che:
articolo 23: I dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali di cui all’articolo 19 hanno diritto, per l’espletamento del loro mandato, a permessi retribuiti.
Articolo 30: I componenti degli organi direttivi, provinciali e nazionali, delle associazioni di cui all’articolo 19 hanno diritto a permessi retribuiti, secondo le norme dei contratti di lavoro, per la partecipazione alle riunioni degli organi suddetti.
Come è agevole notare mentre per i permessi previsti dall’articolo 23 il legislatore indica da un lato il soggetto legittimato: RSA/RSU e l’oggetto del permesso e cioè, l’espletamento del mandato sindacale; nel caso dei permessi ex articolo 30, il legislatore indica come soggetto legittimato il componente dell’organo direttivo provinciale e nazionale delle OO.SS. di cui all’articolo 19 della legge 300/1970, mentre per quanto riguarda l’oggetto del permesso indica esclusivamente la partecipazione alle riunioni degli organi suddetti, con ciò escludendo qualsiasi altra attività sindacale.
Tale distinzione, che come afferma la stessa Corte di Cassazione, la corte d’appello di Venezia non aveva minimamente valorizzato addirittura affermando che la natura e la sostanza dei permessi fosse la stessa, ha un corollario anche in ordine al tipo di attività accertativa che il datore di lavoro può svolgere.
La Corte di Cassazione, infatti, richiamando i suoi precedenti, da un lato afferma che i permessi ex articolo 23 sono censurabili (e possono portare al licenziamento come afferma la sentenza 454/2003 della stessa corte di legittimità, quando sono utilizzati palesemente per motivi diversi da quelli di natura sindacale), ma, proprio per la loro indeterminatezza, non sono controllabili, mentre quelli ex articolo 30, diversamente, proprio perché finalizzati alla partecipazione delle riunioni degli organi direttivi provinciali e nazionali dell’organizzazione sindacale, sono controllabili, implicitamente ammettendo che tale forma di controllo può essere svolta tramite agenzia di investigazioni, come accaduto nel caso di specie e quindi censurabili anche con provvedimenti di natura espulsiva.
Sul punto e quindi sul fatto che l’uso indebito dei permessi ex articolo 30 possa portare al licenziamento, soccorre la sentenza 4302 del 2001 che appunto afferma:
…l’indebita utilizzazione dei permessi, di per sè considerata, non è inadempimento di un obbligo assunto dal dipendente (inadempimento da provarsi dal creditore della prestazione) ma rivela l’inesistenza degli elementi della fattispecie costitutiva del diritto potestativo. Secondo i principi generali è il soggetto che assume di essere titolare di un diritto potestativo che deve provare l’esistenza delle condizioni e dei presupposti necessari per l’insorgenza del diritto stesso. Ove una tale prova, di fronte alle contestazioni della controparte, non venga fornita, trovano applicazione le regole ordinarie del rapporto di lavoro e l’assenza del dipendente è reputata mancanza della prestazione per causa a lui imputabile…
Tale principio, ribadito dalla sentenza in commento, ha consentito alla Corte di Cassazione di confutare ulteriormente la sentenza della corte d’appello di Venezia circa il fatto che l’uso indebito dei permessi ex articolo 30 dello statuto dei lavoratori avrebbe conseguenze soltanto retributive e non anche di carattere disciplinare, con ciò quindi confermandosi che il sindacalista nell’esercizio delle sue prerogative sindacali è uguale a qualsiasi altro lavoratore e quindi se viola le regole anche quelle relative ai permessi sindacali può essere licenziato per violazione del vincolo fiduciario con il proprio datore di lavoro.
Il principio affermato dalla Corte di Cassazione della rilevanza disciplinare del comportamento contestato al sindacalista, ha già trovato riconoscimento da parte dei giudici di merito come risultano dalle sentenze che si allegano (Tribunale di Frosinone: An Plast Pomponi, confermata dalla Corte d’Appello di Roma; Tribunale di Frosinone Omron Sabellico, confermata dalla Corte d’Appello di Roma).
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